In Agones. In un articolo del ’69, Pasolini operava una utile dissociazione tra i termini ‘senso comune’ e ‘buon senso’: dissociazione che vale la pena rispolverare, visto il ripresentarsi di questo lessico nel discorso politico odierno.

Il senso comune viene definito dal nostro autore come “[…] un dato oggettivo, che si potrebbe desumere da statistiche fatte bene: è una media delle idee sulla realtà, una visione del mondo [Weltanschauung] che vige in un dato momento, in una data società […]”. Definizione, questa, che Pasolini ha forse mutuato da Gramsci: che in un passaggio dei suoi Quaderni scrive “[…] si potrà dire che una certa verità è diventata di senso comune per indicare che essa si è diffusa oltre la cerchia dei gruppi intellettuali, ma non si fa altro in tal caso che una constatazione di carattere storico e un’affermazione di razionalità storica […]”. Tuttavia, come afferma poco prima il filosofo sardo: “[…] riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso.”
Questo “riferirsi come riprova di verità” ci introduce al buon senso. Di contro alla concretezza del senso comune, dovuta appunto al suo essere “[…] una constatazione di carattere storico”, Pasolini definisce il buon senso come “[…] solamente un’astrazione, assolutamente non afferrabile dalle statistiche e dalla ragione: esso è quindi sempre pericoloso […] esso è, in una parola, il qualunquismo che si promuove a visione del mondo, facendosi bello della semplicità dell’uomo.”
Definizione magistrale, quella di Pasolini: che poco dopo chiarisce quale sia il possibile effetto di una perversione ideologica del termine: “[…] le persone dotate di buon senso, soprattutto se se ne accontentano o se ne vantano, sono potenzialmente dei fascisti.” Faccio notare che il termine ‘fascista’ impiegato da Pasolini non si riferisce tanto a uno schieramento particolare, quanto piuttosto a un atteggiamento assumibile sia a partire da posizioni di Destra che di Sinistra: “[…] fascista perché qualunquisti, ed eleggono ad ideale umano l’uomo medio, che è una minacciosa e terroristica astrazione.” Ancora una volta: il termine ‘fascista’ in Pasolini non si riferisce a un contenuto, ma a una forma: ovvero un certo “modo”, come descritto nel precedente articolo di questa rubrica.
L’insorgere di determinati termini e di particolari forme linguistiche nel discorso pubblico non è mai casuale, non è un fatto da considerarsi separato: e questo perché la forma è spia di contenuto ed anzi, è contenuto essa stessa (il lettore perdonerà la mia impostazione strutturalista… lo ammetto e questo mi basta). Vi sono parole che non servono per significare, per comunicare o costruire concetti, ma che costruiscono e impongono esse stesse un certo campo semantico. Serviamoci di una metafora pittorica: prendiamo un quadro di paesaggio. Alcune parole non si inseriscono nel discorso come elementi nel paesaggio, andando via via a costruirlo e descriverlo; ma lo delimitano e ne tracciano i confini stessi, ne circoscrivono la cornice: come se all’interno del quadro ritagliassero un’immagine parziale presentandola come il quadro stesso, come il tutto.
È precisamente questo l’effetto di una locuzione come buon senso: essa riduce e delimita drasticamente, colpevolmente il paesaggio del discorso. Si potrebbe delineare una breve genealogia dell’abuso di questo termine e della confusione storica tra buon senso e senso comune: una genealogia che forse comincerebbe con i Discours de la méthode di Cartesio, passando attraverso l’illuminismo e la nascita dell’opinione pubblica… anche questa una entità astratta, proteica dove quotidianamente si consumano gli abusi legati all’ambiguità e alla confusione di buon senso e senso comune.
Anche il concetto di opinione pubblica (ricordiamolo: essa è un concetto, non un fatto!) nasce storicamente fondandosi su quello di buon senso. Il concetto di opinione pubblica serve a sua volta per basare il sistema della democrazia rappresentativa fondata sull’idea di un popolo sovrano: esso prende forma e si articola soprattutto a partire dalla Rivoluzione Francese (definita anche come rivoluzione borghese: cosa che già la dice lunga…).
Se il popolo, inteso come unità astratta di concrete stratificazioni sociali, viene riconosciuto in quanto nuovo soggetto politico, sarà necessario qualcosa che esprima l’opinione o volontà di questo nuovo soggetto politico. Questo strumento è l’opinione pubblica. La fragilità di questo concetto è subito suggerita da quella di popolo: basti pensare che già Bodin distingueva tra peuple en corps, titolare della sovranità; e menu peuple, ovvero ciò che raggruppa i gruppi subalterni e coloro che, pur essendone inclusi di diritto, sono di fatto esclusi dalla vita politica (per questo, come suggerito da Agamben in un passaggio di Homo Sacer, ogni interpretazione del significato politico del termine ‘popolo’ deve tenere conto di questa sua ambiguità genetica, per così dire).
Tuttavia, già alcuni tra i primi illuministi della Rivoluzione Francese dovettero accorgersi che, lungi dall’essere una sorta di qualità naturale dell’uomo e una quasi innata inclinazione a bien juger et distinguer le vrai d’avec le faux (ovvero “di ben giudicare e distinguere il bene dal male”, secondo la formula di Cartesio) il buon senso su cui si basava l’opinione pubblica non era qualcosa di fisso e naturale, ma di mutevole e plasmabile (non a caso, è proprio a questa altezza storica che comincia il potere mediatico: ovvero il potere di plasmare e costruire una opinione pubblica).
Per riprendere il lessico di Bodin: il buon senso del peuple en corps non sarà certo simile al buon senso del menu peuple. Un qualsiasi richiamo al buon senso, un qualsiasi discorso politico che operi una estensione del buon senso a senso comune nasconde sempre una certa volontà di irretire, di abusare surrettiziamente dell’opinione pubblica al fine di spacciare per visione assoluta del mondo una visione particolare.
Pasquino sul campo