L’OPPINIONE ovvero l’oppio dell’opinione

In Agones. Mi è capitato, come sarà capitato più o meno a tutti, di leggere alcuni commenti a proposito del caso Rackete e della nave Sea Watch. Quello che mi è balzato all’occhio, durante la lettura, è il fatto che, sebbene le opinioni espresse in tali commenti siano contrarie e anzi antitetiche (da una parte sentiamo parlare di una novella Antigone, dall’altra di una collaboratrice di scafisti prezzolata da Soros), il modo in cui tali opinioni sono espresse risulti pressoché lo stesso.

L’OPPINIONE ovvero l’oppio dell’opinione

Tale “modo” può più o meno riassumersi in questa nota a un certo post: “[…] posto questo, così chissà che qualcuno dei miei contatti non apra gli occhi.” Da qui la mia domanda: non è che il problema principale consista proprio in questa netta distinzione di sapore eracliteo? ovvero nel fatto che alcuni individui, al di là di quella che sia la loro opinione, si sentano ‘risvegliati’ rispetto ad altri che invece considerano ‘dormienti’? quindi l’idea di fondo che esista una sorta di stato di risveglio? E qui la parola chiave è proprio stato: ovvero una situazione statica, l’idea che si sia arrivati a comprendere il mondo e che non sia più necessario alcun movimento, alcuna uscita dal proprio recinto di valori, esperienze, conoscenze.

Io credo che il risveglio, se pure qualcosa del genere esiste, non sia qualcosa di statico, bensì qualcosa di dinamico (come la dynamis di Aristotele, ovvero una situazione di potenzialità: il poter uscire dalle proprie categorie mentali, il poter ascoltare e comprendere le ragioni altrui… e così via).

Informarsi, riflettere, ascoltare, pesare le ragioni di ognuno: questo è, forse, ciò che più si avvicina al “risveglio”: non tanto lo stazionare e il prendere una posizione in uno dei campi disposti dallo schieramento ideologico, quanto piuttosto il fatto di potersi muovere al loro interno. La prima cosa da fare, quando si informa, è rendere la complessità di un problema. Quello che viene fatto, solitamente, è invece produrre slogan vestiti da concetti: slogan che operano come parole d’ordine, come striscioni da stadio, promettendo un subitaneo inquadramento e una tanto facile quanto ingannevole risoluzione di una situazione complessa.

Credo che il problema principale consista nella comune sicurezza con cui si menzionano, rispettivamente, personaggi di Sofocle e finanzieri ungheresi; credo che il problema consista in quello che accade nella mente del lettore medio quando venga in contatto con notizie del genere. E questo perché esiste anche un mercato dell’opinione: consistente nel fornire ai propri clienti la soddisfazione di credere di avere ragione e saperla più lunga del prossimo (l’industria della politica e dei media).

Ciò che rende una situazione complessa è il fatto che essa presenti diversi piani di problematicità, per così dire: in particolare, un piano di problemi immediati (il fatto che vi siano persone in mare, le condizioni di queste persone) e un piano di problemi di ampio respiro (le cause e le responsabilità storiche che portano tali persone a muoversi, le conseguenze prevedibili di tali movimenti e così via). Ognuno di questi piani ha le proprie logiche e ragioni: che però non possono, da sole, rendere la complessità del problema od offrirne una soluzione.

Il lavoro delle ideologie è quello di creare scorciatoie di pensiero: è quello di impiegare una stessa logica o una stessa serie di ragioni per ordini di problemi differenti, o ancora mescolare e presentare come uniti elementi che non lo sono: di modo che a un atto di coraggio individuale proprio di un certo individuo in una certa situazione (compiuto sul piano di problemi immediati: nel caso specifico, la salute e la sicurezza dei migranti a bordo della nave) venga simultaneamente accollato tutto un insieme di altri contenuti di ordine generale (sul piano di problemi di largo respiro: come una certa politica migratoria, che si lega a sua volta con una certa visione del mondo, con un appoggio a certi modelli economici e così via).

Stesso errore dall’altra parte: per cui un certo livello di criticità verso determinate politiche e soluzioni su un piano generale sembrerebbe inerire a comportamenti che, in situazioni particolari, possono a ragione considerarsi disumani (ovviamente non consideriamo nemmeno quelle posizioni che strumentalizzino tale criticità per fini di convenienza elettorale).

Ancora una volta, l’esercizio del pensiero non sembra consistere nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi ad una qualsiasi scelta prescritta.

P.S.

Volendo dilungarsi sulla questione generale delle ONG, varrà la pena ricordare quanto scritto da T. Negri e M. Hardt nel loro libro Empire, con cui i due autori tentano di descrivere alcuni tratti dell’esercizio e della forma del potere nel nuovo ordine mondiale.

In un certo capitolo (1.2, Biopolitical production) viene notato come le azioni militari o di ingerenza politica non siano più dei veri e propri “[…] interventi in territori giuridici indipendenti,” ma piuttosto “[…] azioni all’interno di un mondo unificato da una struttura regnante di produzione e comunicazione.” Anche nel caso di azioni belliche intraprese a livello globale, esse non vengono più presentate come vere e proprie guerre, ma piuttosto come interventi di polizia transnazionali (non a caso la parola “crisi” viene spesso associata a tali interventi: crisi siriana, iraniana, del Golfo, libica e così via).

La legittimazione di tali interventi, notano i due autori, non viene intrapresa “[…] direttamente con le armi di forza, ma piuttosto con strumenti morali (moral instruments).” Alcuni dei più efficaci tra questi strumenti morali sono proprio le Organizzazioni Non Governative: le quali “[…] non essendo controllate direttamente dai governi, sono considerate agire sulla base di imperativi etici o morali,” al punto che tali organizzazioni, secondo i due autori, possano essere definite come “[…] alcune delle più potenti armi pacifiche (pacific weapons) del nuovo ordine mondiale.”

Questi interventi morali preparano spesso il suolo a interventi diretti, prefigurano quello stato di eccezione (Ausnahmezustand) già riconosciuto come punto focale e perno della produzione giuridica e dell’esercizio della sovranità nel lavoro di C. Schmit e G. Agamben (non a caso, anche l’elezione di un dictator nella storia della Roma Repubblicana era legata al presentarsi di una situazione di crisi, di eccezione). Per questo, pur condividendo i possibili interventi di tali ONG, non bisogna dimenticare questo loro ruolo di armi pacifiche; come pure il fatto che “[…] l’intervento morale serva spesso in quanto primo atto che prepari il palcoscenico per un intervento militare.”

Questo vale anche a livello legislativo: per cui tali organizzazioni possono agire come arma giuridica per mettere in crisi altre forme storiche di produzione giuridica, come nel caso degli stati nazionali: i quali non sono solo le bestie nere che portarono alla formazione di imperialismo e fascismo (ricordiamo che, negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg riportava militarismo e nazionalismo al capitalismo stesso: come teste di un’unica idra) ma anche e prima di tutto lo stadio finale di un particolare sviluppo storico.

È in questa prospettiva che ogni forma di cieco fervore apologetico o di acritica santificazione della capitana Carola Rackete e dell’operato della Sea Watch, per tornare al nostro spunto iniziale, risulta estremamente limitato e insoddisfacente.

Francè ti nomino “Pasquino sul campo”.

Pasquino sul campo