“Andai nelle baracche per fare teatro”: Intervista a Biagio Piccolo

Incontriamo Biagio Piccolo sulla spiaggia di Torvaianica (Roma) durante la performance “Pulcinella al mare”. Vestito bianco, cornetti rossi e maschera nera dal ghigno beffardo. Lo osserviamo andare in bicicletta sulla passerella, portare i lettini, vendere grattachecche, affacciarsi alla torretta di controllo del bagnino.

Biagio Piccolo (Foto di A. Scotto Rosato)

Uno scarabocchio, una macchietta che altera l’orizzonte e si staglia viva sul fondo azzurro. Biagio è sempre in scena. Quando ride, mentre si arriccia i baffi bianchi, quando scocca la lingua con finto fare altezzoso. La sua è una realtà alterata, esagerata e riscritta in un copione sempre nuovo. Tutto può servire per mettere in scena un’emozione, raccontare un fatto, ammaliare il suo pubblico.
Di fronte a una tazzina di caffè, ci ritroviamo a parlare con un signore gentile e raffinato sulla settantina, con quella umiltà tipica di chi ha scalato la vetta a mani nude.

Biagio Piccolo (Foto di A. Scotto Rosato)

Come sei arrivato a Monaco di Baviera?
Io sono andato a Monaco per fare teatro. Mi aveva chiamato il direttore Gianni dalla Libia dell’Istituto Italiano di Cultura di Monaco perché avevo vinto un concorso nel teatro napoletano. Era il 13 luglio del 1973. Nello stesso anno avevo partecipato al film “Avanti avanti” con Jack Lemmon a Ischia. Io volevo andare pure via da Napoli perché non sentivo più a mio agio e sono partito.
L’Istituto non prendeva però la strada di fare niente, intanto mi finivano i soldi e non sapevo come giostrarmi. Allora sono andato all’ufficio del lavoro. Mi danno una cartolina e mi dicono di presentarmi a questo lavoro: era un grattacielo di 20 piani, io ero 38 kg, quando l’ho visto ho pensato “un po’ di vento e mi butta giù”. Rivado un’altra volta all’Arbeitsamt, dove mi attende un prete spogliato di Napoli che lui dirigeva tutta ‘sta cosa con gli Italiani e mi dà un’altra cartolina. Mi hanno portato nelle baracche. Alle 4 di mattina veniva il camion che ci portava a Waldfriedhof. Me lo ricordo ancora… acqua ghiacciata, con il piccone in mano e quattro maglie addosso che tremavo. Piangevo e dicevo fra me “mi fa bene anche questo”.

Quanto sei rimasto nelle baracche?
Solo due settimane. Il secondo giorno che ero lì è arrivato un autotreno carico di cemento e ho scaricato tutto sulla spalla. Dopo ancora, il terzo giorno mi è entrato un chiodo sotto al piede (“così”, allargando pollice e indice). Sono andato dal medico, mi hanno operato, così che mi hanno dovuto mettere a posto con la mutua. E anche quel problema era finito.

Chi erano Italiani di allora?
Erano veramente emigrati. Ricordo le valigie sopra l’armadio. Io quello non lo sopportavo, non mi sono mai sentito un emigrato. Sono andato con i miei soldi e man mano sono andato avanti.

Il teatro però non l’hai mai dimenticato.

La Patente (Foto d’archivio)

Io, il mio teatro non l’ho mai lasciato. Al ‘76 avevo ripreso con l’Istituto di Cultura con la Patente di Pirandello con Luigi Tortora. Io ero uno degli avvocati. Ho fatto venire un amico da Napoli, che ha fatto il Chiàrchiaro, importante in quel pezzo, e ci ha aiutato un po’ con la regia. Dopo un po’ è arrivato anche Aurelio Ferrara) da lì è nato il gruppo “Quelli che il teatro” con la Commedia dell’Arte e le opere di Eduardo De Filippo, come “Sik sik, l’artefice magico” e “Pericolosamente”.

Locandina di Sik Sik, l’artefice magico (Foto d’archivio)

Con il centro culturale Rinascita ho conosciuto a Daniela (Pasculli), e man mano si sono aggiunti tutti gli altri. A Duisburg nel 1980 mi chiamarono per la serie Tatort con il commissario Schimanski, interpretato da Götz George, dove ero il nipote di un grande mafioso.

Poi ho fatto Flohmarkt, serie del 1983. Dopo ho iniziato con l’Università di Augsburg con Plauto e con quella di Monaco con la Serva Padrona di Pergolesi, in collaborazione con la Bavaria Film. Però lì ho avuto una crisi di nervi, ho buttato tutto a terra che non riuscivo. Mi ripresi e la portammo in scena l’ultimo dell’anno a Gilching per 2000 marchi.

Flohmakt (Foto d’archivio)

Eravate rispettati come Italiani?

Biagio Piccolo, Daniela Pasculli, Aurelio Ferrara (Foto d’archivio)

Molto, sia dalla comunità tedesca che italiana. Ci diedero 17 000 mila marchi al Karstadt di Marienplatz per recitare una settimana. Al Theaterfestival del 1985 abbiamo avuto l’opportunità di conoscere il Nobel Dario Fo. Lui aveva una tenda circo all’Olympiapark e noi un’altra. Da lui non c’era nessuno, da noi migliaia di persone. Avevamo il grande regista Michele Oliveri. Michele ha trasformato tutto in arte moderna. Sik sik con tutte facce bianche, era un teatro d’avanguardia.

Come era la vita a Monaco?
Non era semplice. Facevo qualsiasi cosa: dopo la fabbrica, la sera andavo a pulire la simenza, la mattina del sabato da un parrucchiere, poi a lavare i piedi ai signori ecc. Finché un giorno conobbi un architetto che mi mise a lavorare da Armani nella Maximilianstrasse. Controllavo 22 persone e avevo le chiavi di tre piani. Era tanto, troppo, non vedevo più la mia famiglia a Napoli, ma ero circondato da tante persone importanti. Era un ambiente che mi piaceva: baroni, baronesse, il Console… Poi cambiai per Ferragamo, che aveva aperto un negozio proprio di fronte ad Armani e lì rimasi 10 anni come responsabile delle collezioni in arrivo.

Un ricordo vivo di quegli anni.
La frase del direttore dell’Istituto, che mi voleva un bene pazzo. “Biagio, io vorrei un favore da te. Devi farmi qualcosa di Totò”. “Dottò” feci io,” ditemi tutto, ma a me quello mi è antipatico. Veramente non lo sopporto.” Schiocco di lingua.
Allora mi fece sedere vicino a lui e mi disse: “questa cosa che tu non vuoi fare, sarà la più bella cosa che tu farai”. Non lo dimentico mai e aveva ragione. Da allora Totò mi entrò dentro e ancora oggi lo recito. In tutto questo ho iniziato a dipingere.

Nei suoi quadri si tocca la sofferenza, il vuoto e silenzio da bambino. Volti sconosciuti rincorrono da anni la vita del pittore. Biagio dipinge con materiali presi dalla realtà, stucco, bottoni, sacchi del caffè. Quello che ne esce è un morso alla vita, quella cruda e spesso ingombrante.

Quanto incide la metafora del teatro nei tuoi quadri?
Molto. Da Ferragamo ho sudato per avere un cavalletto e da lì ho iniziato per schiribizzo. Mi accorgevo che andavo a finire sempre sui volti, sulle facce. Era il dramma che avevo dentro. I volti sono la mia paura da bambino, le mazzate del professore e la figura del papà che non ho mai conosciuto. Sono 30 anni che dipingo l’angoscia.

Perché hai portato Pulcinella al mare? 

Pulcinella al mare (Foto di A. Scotto Rosato)

Una notte mi è venuta ‘sta fantasia. Pulcinella era un morto di fame che però sapeva industrializzarsi e mangiava sempre. Si giostrava con un barattolino con dell’incenso dentro e andava per le case a vendere ‘ste cartine a 10 lire. Pulcinella è la ricerca del nuovo, l’ingegno e l’arte di arrangiarsi. E io Pulcinella un po’ mi ci sento.