I doni della vita: Un dottorando a Monaco di Baviera

Cosa si mette in una valigia quando si decide di cambiare vita?
Cosa si mette in una valigia quando si decide di cambiare vita?

Scelgo un titolo audace per questo articolo, una titolazione che è invero il titolo di un romanzo che ho molto amato, e cioè Les Biens de ce monde di Irene Némirovsky. È un romanzo ambientato in Francia nella prima guerra mondiale, una storia struggente ma sostanzialmente a lieto fine: una coppia innamorata le cui vite si intrecciano con storie di guerra, in una baderna funesta e insieme «romantica»; i due, alla fine della guerra, perdono tutto, e tuttavia riescono a ritrovarsi ancora una volta; questo loro ritrovo si sostanzia del ricordo delle cose vissute assieme, sono appunto questi intensi momenti di vita attraversata l’uno accanto all’altra a rendere la coppia di coniugi, ancora una volta, felici.

È appunto la vita insieme, i tasselli di una vita attraversata secondo un progetto comune a costituire un composito «bouquet» di doni della vita appunto.

Ho ventitre anni e sono un dottorando italiano che fa un dottorato in filologia romanza a Monaco di Baviera. Se dovessi tracciare con una matita il disegno di me stesso, credo che disegnerei un maglione di lana inglese oltremodo largo, rasposo, scuro, fatto tutto a mano; fatto di trecce di tutte le dimensioni, dalle maniche troppo larghe, dalla scollatura austera. E poi disegnerei, dentro al maglione, un figurino filiforme, coi capelli ondeggianti e arruffati; in mano mi metterei un tazza di caffè con degli arabeschi provenzali, anzi no, diciamo bavaresi – contestualizziamo meglio – e infilerei al figurino sinuoso un paio di pantaloni neri e magari una sciarpa volumizzata dalla maglie fatte col punto a grana di riso.

Ho lasciato l’Italia subito dopo la discussione della mia tesi di Laurea, buttandomi a capofitto in questo stimolante progetto che è il dottorato di ricerca. Un’università internazionale la Ludwig Maximilians di Monaco di Baviera: programmi di dottorato d’eccellenza, efficienza tedesca, ma anche intransigenza tedesca, insomma i diritti coi doveri. E poi c’è Marienplatz coi suoi due municipi maestosi, e le case merlate e pizzute di tetti baroccheggianti. E poi, come tutti sanno, c’è il lato vintage,  Glockenbach e le sue botteghe in cui la gente annaspa fra cimeli ammorbati dall’ «antico», dal «vecchio», dal «bello», un po’ come nel Ventre di Napoli  di Matilde Serao…E poi i mercatini delle pulci, il giardino inglese, le chiese in cui gli organisti suonano live delle arie per i visitatori, per dare vita a quel senso del sacro così radicato nello spirito tedesco che è rizoma della mistica.

Eppure Monaco non è solo questo, Monaco è anche «paura», paura di non trovare, di non riuscire, di non sapere dove andare quando non si ha un alloggio. Al diavolo le fallaci notizie che in Italia serpeggianno fra i più, Monaco è, in tal senso, una città estremamente difficile: gente che si premunisce mesi e mesi prima di una sistemazione provvisoria, magari nella più recondita periferia. Immigrati che partono coi loro fagotti alla volta di posti di lavoro che effettivamente non ci sono, perché il potenziale lavorativo è inverosimilmente scemato; e poi ci sono i mini-job, e cioè i contratti che vanno per la maggiore, ma che di fatto sono quelli coi quali, al massimo, può sbarcare il lunario lo studentello bohemien, certamente non il padre di famiglia.

Il prezzo del cibo è aumentato e la legalizzazione della prostituzione ha intensificato la pratica della stessa, ecco spiegato perché il lavoro più gettonato tra le studentesse monacensi sembra essere proprio quello della escort. Come se si trattasse di una novella età vittoriana, che versa tra luci e ombre di un presente irriverentemente precario, Monaco si dialettizza in una doppia identità, alla faccia di tutti quelli che guardano solo nella direzione della Residenz,  di Nymphemburg , dell’Oktoberfest e del castello di Neuschwanstein.

Veniamo a noi. I doni della vita perché? I doni della vita per cosa? Quando ho lasciato l’Italia, devo confessare, non l’ho fatto con la morte nel cuore; partivo alla volta di un nuovo modo di vivere, cercavo di guardare più lontano. Poi l’impatto coi tedeschi, con il loro conformismo, la loro marcia che va perentoriamente verso un ja o verso un Nein, la loro empatia (se entri nelle loro grazie, ti danno tutto, diversamente ti sono terribilmente ostili). Senza troppi preamboli, trovo che i tedeschi siano un popolo «difficile», difficile per noi italiani che ci facciamo accarezzare dalle parole di Dante, per noi che pensiamo alla parola come al «nobil plettro che molce […] e da lunge […]  invita con lusinghevol suono verso il ver, verso il buono».

Un ventitreenne dicevo, che arriva a Monaco e comincia a fare il dottorato e, allo stesso tempo, il ragazzo alla pari. Scacciato inspiegabilmente dalla famiglia d’appoggio, l’università, per un caso fortunato, mi trova una sistemazione a casa di un giornalista, un ebreo americano come ce ne sono pochi: aperto, moderato politicamente e in senso religioso, professionalmente brillante e con tanta voglia di ascoltare la gente. Molto impegnato nel giudaismo, mi regala, senza saperlo, momenti di felicità infinita, di un lirismo infinito direi.

La sua è una casa «aperta», aperta nel senso che qui la gente entra ed esce in continuazione. Per fare cosa? Per parlare, mangiare insieme, pregare, lavorare, studiare, giocare ai video games  o anche semplicemente per portare in dono una ciotola di funghi o un regalo di compleanno. Terry è un sessantenne estremamente dinamico, padre di due figli che non vivono con lui, ma che vede molto spesso. Terry vive solo, ma ha una fidanzata con cui si vede spesso; non ha una macchina, ma ha una bicicletta; non ama vestirsi elegante, ma piuttosto andare in giro scalzo e con le camicie hawaiane; non è bello, ma il fascino potrebbe riversarlo su una bancarella, e allora andrebbe via come il pane; Terry non ha una figlia che si chiama Miriam, o Shara, o Edith, ha una deliziosa bambina di otto anni che si chiama Anima. Ed è in questa casa aperta – ho appena preso parte a una cena in con un buddista che incontra spesso il Dalai Lama- che io mi sento incredibilmente sicuro, forte come un turbine violento, e allora l’Italia diventa piccola, piccola perché certamente in Italia, avrei avuto una vita diversa.

A Monaco poi ho riscoperto il senso dell’altruismo, perché a un certo punto, prima che mi sistemassero da Terry non sapevo più dove andare, e allora mi sono sentito solo, anche perché non ho alcun appoggio qui in città. Sono stato aiutato – «Quello che so di domani è che la Provvidenza sorgerà prima del sole»- e a mia volta sento oggi il bisogno di fare lo stesso, proponendomi ogni volta, «passando parola»,  sorridendo di più. Una volta ho letto che la felicità è un dono del dolore, che quando ci abbandona ci restituisce la voglia della vita e tutto quello che non ci ha tolto per sempre. Bene, se in Italia la mia vita era diventata una crociata contro il carrierismo dei miei insegnanti, e contro tutti quegli –ismi, tipo il marchesismo,  qui la vita è la vita, la vita di chi questa vita se la merita.