Note sul razzismo

In Agones. Credo che l’idea comune e più o meno condivisa che si ha a proposito del razzismo, in Italia e non solo, sia piuttosto confusa. O meglio: fin troppo chiara. In generale, mi sembra che si continui a parlare e a ragionare di razzismo nei termini del solo razzismo biologico.

Io credo che il razzismo odierno non sia tanto biologico, quanto piuttosto socio-culturale. A dire il vero, sono dell’opinione che anche il razzismo biologico sia in qualche modo prodotto di un razzismo socio-culturale. Certo esiste una paura, un odio del diverso quasi geneticamente iscritta nella memoria della nostra specie.

Ma questo tipo di razzismo primitivo, come notò Pasolini, è un razzismo che “[…] precede la fase della ragione” e che dunque, in qualche modo, precede anche la Storia: mentre quello biologico, pur facendo leva su questo Ur-razzismo, nasce all’interno di un determinato quadro storico in cui concetti quali ‘nazione,’ ‘popolo’ e ‘razza’ non sono isolabili né l’uno dall’altro, né dal parallelo sviluppo di alcune forze economiche, teorie scientifiche e discipline varie, dalla cui sinergia vennero formandosi particolari forme di sovranità (come i moderni Stati Nazionali) ed equilibri di potere (come il predominio europeo e il colonialismo).

Il razzismo socio-culturale a cui mi riferisco, volendo stringere, è un razzismo che nega o non vuole comprendere una visione, una idea del mondo diversa dalla propria. È un razzismo che si scatena sulle problematiche superficiali, che non vuole considerare le cause dell’alterità né riflettere secondo quel filo del pensiero che, se seguito fino in fondo, porta ai problemi più essenziali e alla possibilità di comprende gli altri. Questo razzismo è, a ben vedere, il prodotto finale di una acuta sclerosi del pensiero.

Ma siccome la media dei dibattiti, in Italia e nel mondo, si muove su livelli da prima elementare (con tutto il rispetto per la commuovente innocenza dei bambini), affidiamo un certo tipo di analisi a un possibile articolo a venire e raccontiamo invece una fiaba.

FIABA DEL RAZZISMO IN ITALIA
(e forse nel mondo)

C’era una volta e c’è tuttora (ma solo da circa 160 anni) una certa istituzione statale radicata su un certo territorio dove il sì suona. Questa istituzione statale fa ora parte dei PIGS, ovvero dei ‘maialini’ del primo mondo. Il primo mondo è quel mondo magico e meraviglioso di maialini e maialoni dove la produzione di armi impiegate per creare morti in altri mondi contribuisce agli indici positivi di crescita economica; quel mondo dove scorrono fiumi di bevande analcoliche nere e dove se non mangi carne da McDonald o Burger King puoi sempre comodamente trovarla al supermercato, confezionata in vari strati di plastica; quel mondo dove per un bambino, crescendovi, sarà più facile conoscere e riconoscere centinaia di nomi di marche e logo e calciatori e app e serie Netflix che la differenza tra un’ape e una vespa; quel mondo dove per un adulto sarà più facile indovinare quale sia il nome della bevanda analcolica nera, piuttosto che la citazione dantesca contenuta in questo paragrafo.

Ora: in questo paese dove, come diceva Dante, il sì suona (ma forse in tutto il primo mondo magico e meraviglioso) esistono due tipi principali di razzismo: il razzismo dei cattivi e il razzismo dei buoni.

Il razzismo dei cattivi è il razzismo di quelle parti di popolazione più povere sia materialmente che culturalmente: è il razzismo di coloro per cui la visione stessa di un uomo di un mondo che non sia il primo è quasi scandalosa. E questo perché egli rappresenta, anche nella sua semplice presenza fisica, la possibilità e l’immagine vivente di un regresso sociale e materiale: come pure il venire meno di quelle proiezioni e promesse di benessere inculcate dal meraviglioso e magico primo mondo, quelle promesse di cui, in ragione della loro povertà culturale (imputabile non tanto a loro: ma all’offerta educativa e culturale del Paese), queste parti della popolazione restano succubi.

Il razzismo dei buoni è il razzismo di quelle parti di popolazione che, grazie soprattutto alla loro sicurezza materiale, non percepiscono in un uomo di un mondo che non sia il primo questa possibilità di regresso sociale e materiale, quindi danno del razzista a chi invece la percepisce e se ne sente minacciato. Questi uomini di altri mondi non li spaventano, perché avrebbero bisogno di almeno due generazioni prima di poter effettivamente entrare in competizione con loro: avrebbero bisogno di lauree, contatti, inserimenti in determinati meccanismi di potere e così via. Ovviamente, come direbbe l’autore della fiaba di Zarathustra, è secondo il metro morale di questi ultimi individui che si è divisa la popolazione tra buoni e cattivi… ma se da questi individui non si può pretendere la conoscenza di Nietzsche, che magari considerano un profeta del nazismo, si può forse pretendere la conoscenza di Marx e del fatto che, molto spesso, anche i buoni sentimenti siano da annoverarsi tra i privilegi di classe.

Nel paese dove il sì suona esistono poi individui organizzati che, su questi due generi di razzismo, ci campano. Alcuni sul razzismo dei buoni, altri su quello dei cattivi. E a loro va bene così: va bene che esistano due schieramenti, che esistano un polo positivo e uno negativo i quali continuino a percepirsi in irriducibile tensione, separati e incapaci di comprendersi a vicenda: ciò è infatti necessario perché la batteria del consenso, il grande reality show della politica, continui a produrre distrazione e ad attirare pubblico (non nel senso di ‘pubblico’ contrapposto a ‘privato’, ma nel senso mediatico-spettacolare di ‘spettatori’).

Così tutto continua più o meno a girare (soprattutto l’economia) e gli abitanti del primo mondo magico e meraviglioso continuano a vivere in una civiltà e secondo standard di consumo frutto di uno sviluppo di cui non conoscono minimamente costi, problematicità e implicazioni ‒ strattonandosi a vicenda dimentichi che, come ebbe a dire Ortega y Gasset, “civiltà vuol dire, innanzitutto, volontà di convivenza: si è incivili e barbari nella misura in cui non ci si sente in rapporto con gli altri”.

E vissero tutti nemici e ignorenti.

Pasquino sul Campo